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Lettere da Kiev - parte II

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Lettera del figlio Questa notte mi sono svegliato di colpo e ti ho cercato, però non ti ho trovato. Nel buio ho scorto la mamma illuminata da una candela mentre era intenta a cucire qualcosa. Sono trascorsi venti giorni da quando ci siamo separati e non so ancora se tu sia vivo oppure no e questo pensiero mi tiene sveglio. Ci spostiamo continuamente cercando riparo in luoghi dove ci siano altre persone, per non rimanere soli mentre le bombe scoppiano. Nessuno dovrebbe morire da solo. La mamma mi chiede di essere coraggioso, mi ripete sempre che il mio nome lo avete scelto proprio per il suo significato. Ma non è facile. Ho visto tanti bambini come me a terra, immobili e ho sperato che stessero facendo finta, che stessero facendo un gioco. Ho immaginato se tutto questo fosse un gioco, se le bombe che esplodono fossero fuochi d’artificio, come quelli che vedevamo dentro i film e che tu mi spiegavi essere finte. Un enorme gioco dove tutti stiamo partecipando, dove i fucili sparano palline

Lettere da Kiev - parte I

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Lettera del padre La notte, in quei rari momenti in cui riesco ad addormentarmi, sogno spesso quella copertina rossa che ero solito rimboccarti bene, per evitare che il freddo da fuori potesse raggiungere il tuo corpo delicato. Poi mi sveglio, di soprassalto, smarrito, e mi chiedo dove tu possa essere, con quali pensieri, sotto quali cieli. Le notti sono costellate da sogni brevi e febbricitanti, mille risvegli repentini, chilometri di corse a perdifiato prima di poter di nuovo posare il capo sopra qualche pietra. Mentre scappavo, l’altro giorno, o forse era ieri? Le giornate sono tutte uguali quando si fugge, tra le macerie di un palazzo ho visto una bambola ancora intatta. L’ho raccolta e l’ho guardata, le ho pettinato i capelli con le dita, pulito il viso con la mia saliva, aggiustato il vestito stropicciato stirandolo con il palmo della mia mano e poi l’ho stretta a me. Ho pianto pensando che potessi essere tu, figlio mio. Tuo padre piange, piange per questa guerra, per la nostra c

Serie TV per genitori e figli: educare alla visione

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Nelle ultime settimane, forte anche il fenomeno Squid Game, mi sono trovato a discutere con molti genitori del tempo che i figli trascorrono davanti la televisione o sul tablet a guardare i contenuti più svariati. Il tema non riguarda solo i bambini più piccoli ma anche i preadolescenti e gli adolescenti. Spesso si ha l’errata concezione che passare tempo davanti ad uno schermo comporti solo una passivizzazione dell’individuo. Vedere non è solo occupare del tempo o un modo per “far stare tranquilli i bambini” mentre noi adulti siamo impegnati in altre faccende. Si sottovaluta, invece, che quello spazio, quel tempo, può diventare al contrario un’occasione di interazione e anche di crescita.  Educare alla visione è il punto al quale approdare! Perché ci sono modi e modi di “vedere”, tutto sta nella capacità che abbiamo di leggere i contenuti, tradurli e renderli fruibili. Condividere un film o una serie tv, fermarsi e fornire spiegazioni, sdrammatizzare, ricapitolare e chiedere un confro

Squid Game è davvero un problema?

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Alzi la mano chi non ha visto o non ha almeno una volta sentito parlare di quello che è diventato un vero e proprio fenomeno culturale del momento. Lo “Squid Game” che è sulla bocca di tutti è una serie tv coreana trasmessa su Netflix da circa un mese e che vede protagonisti uomini e donne indebitati fino ai capelli contendersi un montepremi miliardario cimentandosi in giochi dall’apparenza infantile e che tutti noi almeno una volta nella vita abbiamo fatto con la diversa conseguenza che una volta terminato il gioco, chi viene eliminato, anziché essere sottoposto ad una penitenza, viene ucciso. Per cui giochi semplici e anche tanto amati come “Un, due, tre, stella”, il tiro alla fune, il lancio delle biglie, fungono da scenario per delle sanguinose carneficine finalizzate ad accaparrarsi il premio in denaro tanto ambito.  Quel che ha fatto preoccupare milioni di genitori, insegnanti, dirigenti scolastici e addetti al lavoro educativo, è l’equivocabilità che si nasconde dietro la parola

Genitorialità: funzioni e compiti educativi

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Le relazioni tra genitori e figli sono qualcosa di unico e irripetibile che mette in gioco sentimenti complessi e profondi, a volte contraddittori, ma che inevitabilmente segnano la storia personale di ognuno. Ciò che emerge è che fare i genitori è difficile, è una sfida che al giorno d’oggi è ancora più ardua ma è una sfida che si può vincere. Spesso prevale, nel genitore, la sensazione di non potercela fare nel portare a termine il compito educativo al quale è chiamato. Tante volte si è evocato il cosiddetto “Manuale del bravo genitore”, come se davvero potesse esistere qualcuno o qualcosa in grado di poter enunciare tutta una serie di regole valide ed efficaci, a livello globale, per capire come meglio comportarsi nei confronti dei figli nelle varie situazioni che si affrontano. Però il manuale non esiste! Per cui tocca rimboccarsi le maniche e fare tesoro delle esperienze che si vivono. Essere “genitori efficaci” non ha nulla a che fare con l’essere “genitori perfetti”. Essere geni

Tik Tok e processi educativi

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Spesso mi è stato chiesto quale fosse l’età migliore per consegnare un cellulare nelle mani del proprio figlio e della propria figlia. È una domanda molto soggettiva e che richiede un’attenzione particolare. Come per tutte le cose bisogna tener conto del livello di maturità dell’interessato e soprattutto sul reale utilizzo che se ne deve fare. La tendenza degli ultimi anni è quella di regalare il cellulare ai bambini che hanno effettuato la prima comunione, altri pongono come età d’inizio la prima uscita da soli per il quartiere o per andare a scuola o ad una gita. L’ètà, insomma, si sta sempre più abbassando e sempre più i nostri figli, fin da piccolissimi, sono abituati a vederci con i cellulari in mano e spesso a utilizzarli come mezzo di intrattenimento. Perché questo tema diventa di fondamentale importanza? Perché oramai il telefono non è più un semplice “telefono”, anzi, è inappropriato utilizzare anche questo termine. Il telefono è morto, tutti o quasi, siamo possessori di smart

La Comunità Educante Diffusa

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La Comunità Educante Diffusa si pone come obiettivo quello di valorizzare, attraverso il prendersene cura, i bambini e gli adolescenti, in tutti i contesti di vita sociale e familiare prestando particolare attenzione alle relazioni emotiva che si vengono ad instaurare. Il compito della Comunità e dei suoi membri, figure educative, pedagogisti, insegnanti, è proprio quello di garantire la cura e la responsabilità di tutti i microcontesti in cui si muovono i ragazzi. L’idea alla base della Comunità Educante Diffusa, in linea con orientamenti pedagogici del passato, è che i bambini e gli adolescenti non siano semplici contenitori da dover riempire di saperi e conoscenze in modo passivo ma esseri capaci di sviluppare idee, riflessioni, pensieri e ideali dei quali prendersi cura. Gli obiettivi da perseguire privilegiano il senso di appartenenza ad un collettivo, la condivisione degli intenti, un processo educativo fondato sulla corresponsabilità. A tal proposito, il ruolo delle figure educa